a cura di Valentina Biondini, appassionata di arte e letteratura
Se chiedete Who’s Next? rispondo che mi chiamo Arturo Nathan e sono stato un pittore italiano di origine ebraica. Per i temi affrontati nella mia pittura sono stato definito “il contemplatore solitario”, proprio per il modo struggente con cui ho saputo trasporre sulla tela la contemplazione della fine delle cose. Ecco la mia storia…
Il dottor Edoardo Weiss, il mio psicanalista, un giorno mi suggerì di iniziare a dipingere. Correva l’anno 1919, la Prima Guerra Mondiale era finita da poco, ma i suoi strascichi ce li saremmo portati appresso ancora a lungo, nel fisico e nello spirito.
Io non avevo ancora trent’anni, ma versavo in uno stato di malinconia così profondo da sfociare nel patologico. Per questo avevo deciso di rivolgermi proprio a lui. E il suo consiglio lo seguii per davvero. Avevo già tentato di entrare nel settore del commercio, per volere di mio padre Jacob, di professione commerciante, ma la mia carriera era naufragata sul nascere per via della mia totale inettitudine verso il mondo degli affari. In seguito mi ero iscritto alla facoltà di filosofia di Genova. Per capirci, niente di più lontano dalla mia precedente esperienza.
Ad ogni modo l’idea del dottor Weiss mi piacque così tanto che nel ‘21 aprii il mio primo studio artistico a Trieste, la mia città natale. Solo di recente avevo preso a frequentare gli atelier dei pittori Slataper e Zangrando, e da altrettanto poco tempo mi ero iscritto alla “Scuola libera di nudo” del Circolo artistico di Trieste. In altre parole ero quasi un completo autodidatta e per di più approdato all’Arte un po’ per caso. Ciononostante i risultati che raggiunsi a livello artistico di lì a breve furono più che positivi. Gli anni ’20 furono per me un decennio di intensa sperimentazione volta alla ricerca di una mia autonomia stilistica. Il mio debutto avvenne nel ’24 quando presentai un mio Autoritratto alla mostra del Circolo artistico di Trieste. Nel ’26 esposi l’Autoritratto con gli occhi chiusi alla Biennale di Venezia, mente nel 1927 presentai alla Prima esposizione del sindacato delle belle arti del Circolo artistico di Trieste un secondo autoritratto, conosciuto con il titolo di Incantatore o Asceta.
Fu, invece, nel ’25, durante un soggiorno a Roma, che incontrai per la prima volta di persona il maestro de Chirico che già ammiravo enormemente. Ne nacque un rapporto di stima e affetto da ambo le parti. E’ innegabile come questo sodalizio influenzò profondamente anche la mia successiva produzione artistica. Non a caso da allora iniziai a essere annoverato fra gli esponenti della pittura metafisica. Eloquenti sono a questo proposito le mie opere Solitudine (del 1930), Il cavallo morente (del 1932) e Nave a rimorchio (del 1934).
Nel 1929 presi parte alla collettiva di Milano, presso l’omonima galleria, e sempre in quell’anno partecipai al mio primo evento internazionale, l’Esposizione internazionale di Barcellona, con l’Abbandonato. Di quest’opera si dice che risentì di quelle atmosfere e tematiche vicine allo stile postimpressionista, definito “Realismo Magico”. In questo periodo, infatti, la componente onirica si era imposta in maniera quasi autarchica nella mia produzione. Perché forse era proprio attraverso il sogno, la fantasia, che cercavo di elaborare il mio io, il mio esistere all’interno del reale, per prenderne coscienza, consapevolezza.
Successivamente i miei lavori risentono di un certo avvicinamento al mondo antico, con opere animate da reperti archeologici e personaggi della statuaria classica. Gli anni ’30, comunque, segnarono sia l’apice della mia carriera, con le esposizioni alla Biennale internazionale di Vienna (nel ‘33) e a Budapest (nel ’36), sia la sua improvvisa quanto inesorabile interruzione. Nel ’38, a seguito della promulgazione delle infami leggi razziali, io, Arturo Nathan, cittadino italiano, ebreo da parte di padre, venni cancellato dalla vita pubblica e mi venne imposto di interrompere la mia attività espositiva. Per non riprenderla mai più…
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale venni mandato al confino nelle Marche. Ma neanche qui smisi di dipingere, seppure per me solo, come testimonia l’Attesa, la mia ultima opera del ’40 in cui provai a esprimere tutta la solitudine che provavo raffigurando un uomo di spalle, al tramonto, di fronte al mare. Del resto la ricerca di me stesso era stata la molla che mi aveva fatto avvicinare all’Arte ed essa si era ormai intrecciata indissolubilmente con la mia pratica pittorica. Ed è inoltre innegabile come, da un certo punto in poi, si potrebbe dire con la maturità, le mie opere si fossero legate al mondo del mare, tanto che in esse taluni hanno visto proprio una “metafisica del mare”.
D’altra parte il mare è l’elemento simbolo, conscio e inconscio, di quella Trieste che è stata casa mia. Ma anche l’elemento che più di ogni altro mi appariva congeniale per rappresentare la solitudine dell’uomo di fronte alla vita. Una solitudine che non dà scampo, e dietro cui si cela l’ombra lunga della morte. Dopo il confino il mio triste destino si compì. Dapprima fui internato nel campo di prigionia di Carpi, poi fui deportato in Germania dove trovai la morte il 25 novembre del ’44. Di me dissero che fui un pittore asceta, vissuto in un mondo in cui il confine tra sogno e realtà era assente. E nessuno sa quanto proprio i sogni siano stati il mio unico conforto nell’ultima tragica parte della mia vita. Quanto al mio percorso artistico, ciò che sento di aver compreso è questo: «L’arte ha un solo soggetto: lo spirito del suo autore in ciò che contiene di profondo, di racchiuso e nella misura in cui fa parte della sua vita intima».