a cura di Valentina Biondini, appassionata di arte e letteratura
La nostra attenzione si sofferma questa volta su quello che è stato considerato il “primo artista-scienziato del dopoguerra” e “l’ultimo del millennio”. Stiamo parlando del pistoiese Fernando Melani, la cui dimensione creativa ha preso spunto da riflessioni sulla materia e sull’atomo, per poi avvicinarsi, addirittura anticipandole, alle influenze dell’Arte Povera, dell’Arte Concettuale e della Minimal Art.
Tuttavia la sua attività non è facilmente ascrivibile all’interno di categorie standardizzate e univoche. Infatti, benché sia stato principalmente un artista astratto, altrettanto significative sono state le sue inclinazioni come ricercatore scientifico, scrittore, teorizzatore e fotografo. Ad esempio, tra i suoi numerosi scritti ricordiamo: “Davanti alla pittura” (1953), “Addio Giulio!” (1955), “Chiò e Melani, due indirizzi della pittura plastica formativa” (1956), “Un’analisi critica di Fernando Melani, Quadri di John Forrester” (1960), “Astratto vecchio nuovo ed oltre” (1963-64), “Universo Evoluzione Arte” (1979). Parimenti va sottolineato come la sua eclettica attività si sia ben presto identificata con la sua intera esperienza di vita, tanto che l’artista, e amica, Donatella Giuntoli ha propriamente titolato “Un’esperienza bio-artistica” il saggio a lui dedicato. Appare dunque importante approfondire la questione creativa con qualche accenno alla sua biografia. Fernando Melani nasce il 25 marzo 1907 a San Piero Agliana, in provincia di Pistoia. Dopo aver frequentato il ginnasio, nel 1924 interrompe gli studi.
Successivamente nel 1937 entra in possesso dell’abitazione familiare sita in Corso Gramsci a Pistoia, dove abiterà per tutto il resto della sua vita. Nel giugno del 1945, dopo un periodo di lavoro presso la fornace di proprietà del padre ormai sull’orlo del tracollo finanziario, comincia a dedicarsi all’arte. Del resto il secondo conflitto mondiale rappresenta un momento decisivo nel modo di pensare di Melani, che ribalta completamente le proprie priorità. Da questo momento in poi, infatti, assume una serie di decisioni che cambiano in maniera radicale la sua vita: innanzitutto si iscrive al Partito Comunista Italiano (PCI), poi decide di indossare abitualmente, quasi come una divisa sacerdotale, una tuta blu simile a quella degli operai, spesso accompagnata da una sciarpa gialla.
Inoltre cede una parte della casa di famiglia al partito in cambio di un vitalizio, e infine trasforma gli spazi restanti dell’abitazione in una casa-studio, priva di ogni accessorio e comodità, dove accumula gli esiti delle sue innumerevoli sperimentazioni. Ecco che la casa si trasforma nel luogo deputato alla creatività, in modo così simbiotico che la vicenda biografica dell’artista pistoiese d’ora in poi combacerà con la sua stessa pratica artistica. Il suo interesse per l’arte è datato 1945 e parte dalla pittura. Si forma accanto all’amico Alfiero Cappellini che osserva dipingere paesaggi en plein air e che lo introduce presso Giorgio Morandi. Le sue prime opere, tra cui ricordiamo un Paesaggio con alberi e un Autoritratto, evidenziano già una resa sintetico-astratta del dato di natura.
Di lì a poco, dunque, inizia a seguire i dettami dell’astrattismo. Come teorizzerà nel testo “Davanti alla pittura” (1953), l’arte deve essere rigorosamente astratta. La sua successiva e prolifica produzione, che copre quattro decenni, la realizza nell’isolamento della sua casa studio, in linea col suo carattere timido, solitario ed eccentrico, e soprattutto da completo autodidatta. A partire dal 1950 espone quelle che possono essere definite le sue prime opere “astratte”, collabora con vari centri d’arte pistoiesi e inoltre, grazie alla produttiva collaborazione con la grande promotrice culturale Fiamma Vigo, il suo talento arriva fino a Firenze e a Milano. Nel 1972 partecipa a “Documenta 5” presso il Museo Fridericianum di Kassel in Germania insieme allo scultore Luciano Fabro, rimasto colpito dal rigore stilistico di questo singolare artista.
Sempre al 1950 appartengono numerose opere lignee che si trovano a metà strada tra la pratica pittorica e quella scultorea, nelle quali gli elementi, dislocati nello spazio, risultano elaborati secondo declinazioni neoplastiche. Nel 1979, invece, la sua attenzione si focalizza sulle potenzialità insite nei metalli. Il suo intento è quello di identificare i riverberi nascosti all’interno della materia, attraverso una serie di suggestioni provenienti dalla fisica moderna.
Inoltre per Melani è l’aspetto conoscitivo, più che quello formale, a influenzare i suoi lavori, da lui stesso definiti, significativamente, “esperienze”. Questo è, infatti, il periodo in cui si dedica alla lavorazione di fili di rame con l’ardito intento di afferrarne le pulsioni recondite. Quindi realizza opere composte da lamine, lamiere e chiodi, fra cui ricordiamo “L’errore” del 1964. Invece negli anni ‘70, oltre alle composizioni metalliche, realizza dei lavori che da una parte ricordano i mobiles di Alexander Calder, e dall’altra richiamano le macchine inutili di Bruno Munari. Tra queste citiamo “La macchina semplice per vedere un moto alternato” e le varie “Macchine semplici per fabbricare l’atomo”. Nello stesso periodo si dedica alla progettazione e costruzione di alcune parti della sua casa, e decora le pareti e i soffitti con fili e altri differenti materiali.
Al 1976 risale “Progetto di lettura globale. Campionatura e informatica”, un’installazione composta da 31 monocromi di diversi materiali e colori, esposta a Pistoia, Milano e Vinci. Contemporaneamente nel percorso artistico di Melani prende avvio una fase maggiormente concettuale. Nel 1978 presso lo studio La Torre di Pistoia espone delle opere caratterizzate “semplicemente” dalla loro essenza materiale, come il “Sacco di fiammiferi spenti”. Mentre alla fine degli ‘70 si serve di telai di biciclette, ridipinti e assemblati, per creare dei personaggi quantomai eccentrici. Il suo viaggio nel mondo dell’arte si conclude con un lavoro realizzato su una tavola tarlata. Qui le fibre, erose dall’azione della natura, emergono prepotentemente a dimostrazione di quanto un’opera possa “crearsi” da sola, ovvero dalla stessa materia di cui è composta. Melani muore il 28 marzo 1985 nella sua città.
La sua casa-studio, colma di materiali sedimentati, metalli, lamiere e fili di ferro che pendono dal soffitto viene acquistata nel 1987 dal Comune di Pistoia, insieme alle oltre 2800 opere in essa contenute. Dopo un lungo restauro, viene riaperta al pubblico nel 1998. L’esperienza che si compie al suo interno provoca emozioni intense e destabilizzanti. Si tratta di uno spazio creativo unico, dove la varietà dei materiali sperimentati dall’artista compone un percorso concettuale in divenire. I dipinti, le sculture, gli assemblaggi, gli scritti e persino i mobili posizionati dall’artista, e mai spostati, interagiscono vicendevolmente, diventando l’emblema stesso dell’arte contemporanea. In questa sorta di multiforme installazione, infatti, si susseguono esplorazioni artistiche trasversali le cui radici affondano in generi quali il Surrealismo, il Neoplasticismo, il Costruttivismo, l’Espressionismo astratto, il Minimalismo e l’Arte Povera. In questo modo Melani ha realizzato una vera e propria opera totale che, attraverso la commistione di dimensioni sperimentali, ci racconta l’universo creativo ed emotivo del suo stesso creatore.