a cura di Margaret Sgarra, curatrice di arte contemporanea

Marta Scavone è un’artista torinese, nata nel 1998, che fonde vari mezzi espressivi per creare immagini visivamente e concettualmente stimolanti. Nel 2017 si diploma in Fashion Design presso il liceo artistico e nel 2020 si laurea con lode in Fotografia presso l’istituto IED di Torino. La multidisciplinarietà è una parola chiave del suo approccio artistico. Il suo lavoro infatti combina fotografia, moda, installazione artistica e performance teatrale con lo scopo di esplorare temi contemporanei in modo concettuale e creativo.
Quando e perché ti sei avvicinata alla fotografia?

Mi sono avvicinata alla fotografia durante l’ultimo anno di liceo artistico, dopo aver completato un percorso di studi legato alla moda. Sentivo il bisogno di esplorare un mezzo nuovo, che mi permettesse di esprimere in modo più diretto e personale la mia creatività. Seguendo in parte le orme di mio nonno materno, che era fotografo, ho deciso di iscrivermi al corso di laurea in fotografia presso lo IED di Torino. Durante gli anni universitari ho compreso appieno il potenziale espressivo della fotografia, soprattutto quando viene messa in dialogo con le mie altre passioni: il teatro, la danza, la pittura. È stato in quel periodo che ho scelto di farne il mio linguaggio principale, perché è un mezzo capace di andare oltre la semplice documentazione del reale, e diventare uno strumento di costruzione di mondi immaginari, onirici e simbolici. Mi piace pertanto definire il mio approccio con la frase: “Uso la fotocamera come strumento di creazione e immaginazione”. Per me, infatti, fotografare significa anche progettare e costruire. Attraverso installazioni, scenografie e oggetti carichi di significato, trasformo lo spazio fotografico del mio studio in un vero e proprio teatro visivo, dove ogni elemento racconta qualcosa da decifrare.

All’interno della tua ricerca fotografica troviamo come costante la società e le sue criticità. Quale pensi sia il ruolo dell’artista in questo contesto?
Credo che il ruolo dell’artista oggi sia quello di osservare con attenzione e sensibilità il mondo che lo circonda, per poi restituirne una visione personale e profonda. Nel mio caso, ogni opera nasce da un’esigenza interiore di comprendere meglio ciò che mi sta intorno: E’ una sorta di studio visivo, che affronto con uno sguardo curioso, ironico e, a tratti, fanciullesco. Attraverso l’arte cerco di tradurre riflessioni su tematiche sociali e di condividerle in narrazioni visive complesse, come se fossero dei rebus, che invitano lo spettatore a decifrarne i significati. Penso che l’artista possa contribuire a generare consapevolezza, a stimolare il pensiero critico e, in un certo senso, a favorire piccoli cambiamenti nella percezione collettiva della realtà.
I tuoi lavori hanno una parte progettuale, una tecnica e una concettuale. Da dove parti per realizzarli e quando capisci che sono terminati?

Il processo di realizzazione delle mie opere è piuttosto articolato e richiede tempi lunghi, perché scandito dal bisogno di comprendere a fondo le idee che voglio esprimere e trovare il modo più efficace per tradurle in immagini. Tutto inizia con il disegno. Ogni concetto prende forma nei miei taccuini, attraverso schizzi, appunti e riflessioni che mi aiutano a visualizzare la composizione e i dettagli della fotografia finale. Quando l’idea raggiunge una sua maturità progettuale, passo alla costruzione del set, che rappresenta il cuore del mio lavoro. Il mio studio fotografico si trasforma in un laboratorio visionario, dove ogni elemento – dai fondali ai pannelli, dalla vegetazione agli oggetti – è costruito o selezionato con cura per dare vita a un universo visivo immersivo e carico di significato. Anche il mio corpo entra in scena, diventando spesso parte integrante della composizione, in un dialogo continuo con l’ambiente costruito. La realizzazione vera e propria di un’opera può richiedere mesi, tra ricerca dei materiali, costruzione, sessioni fotografiche e post-produzione. Capisco che un’opera è terminata quando riesco a guardarla e a sentire che ogni elemento ha trovato il suo posto, che la narrazione è completa e risuona con l’idea originaria che l’ha generata.
C’è qualche fotografo/a che ammiri particolarmente o che ha influenzato il tuo lavoro?

Sicuramente ci sono fotografi che hanno avuto un ruolo importante nel mio percorso formativo e che continuo ad ammirare profondamente. Cindy Sherman, ad esempio, per il modo in cui utilizza il suo corpo come mezzo espressivo e strumento di trasformazione. Trovo affascinante come riesca a raccontare storie complesse e stratificate attraverso la costruzione di personaggi e scenari, un approccio che sento molto vicino al mio. Sandy Skoglund, invece, mi ha colpita per la sua capacità di creare ambienti surreali e immersivi, attraverso un uso minuzioso della scenografia e del colore. Il suo lavoro è un perfetto esempio di come fotografia e installazione possano fondersi per dare vita a mondi alternativi, costruiti nei minimi dettagli: un processo molto simile al mio, in cui ogni oggetto e ogni elemento ha un ruolo preciso nella costruzione del senso. Infine, per quanto non sia stato un fotografo, sento di dover nominare anche il pittore Magritte, in quanto ha influenzato profondamente il mio modo di concepire le immagini. Il suo linguaggio visivo, apparentemente semplice ma denso di ambiguità e significati nascosti, mi ha insegnato quanto potente possa essere la metafora visiva. Come lui, mi interessa creare “rebus” da decifrare, immagini che pongano domande più che dare risposte immediate, aprendo spazi di riflessione sul reale attraverso l’assurdo, il poetico e l’inaspettato.

Sei giovanissima e hai già partecipato a tanti contesti espositivi e fiere in Italia, a Parigi e a New York. Qual è il tuo sogno nel cassetto come artista?
Il mio sogno più grande è quello di poter esporre le mie opere all’interno di istituzioni museali di rilievo internazionale, entrando a far parte di collezioni permanenti. Luoghi come il Castello di Rivoli, il MoMA di New York o la Tate di Londra rappresentano per me non solo traguardi importanti, ma spazi ideali in cui il mio lavoro potrebbe dialogare con il pubblico in modo più profondo e duraturo.
Quali sono i tuoi prossimi progetti e a cosa stai lavorando ora?

In questo momento sto lavorando alla mia serie fotografica più recente, “Bazaar of the Unconscious”. Si tratta di un progetto a lungo termine di autoritratti surreali, in cui esploro tematiche sociali contemporanee attraverso immagini oniriche, simboli e suggestioni provenienti dal mio inconscio e dai miei sogni. Parallelamente, sto sviluppando la parte teorica e visiva di un nuovo progetto multidisciplinare, sempre incentrato sull’autoritratto, ma con un approccio più performativo e teatrale. Anche in questo caso l’obiettivo è indagare le dinamiche della nostra società, ma da una prospettiva diversa, più corporea e immersiva.