a cura di Margaret Sgarra, curatrice di arte contemporanea
Intervistiamo Giada Degortes, giovane fotografa e regista sarda, che attraverso il suo immaginario artistico riesce a fondere storie reali, potenti e collettive, con la propria esperienza interiore e personale.
Che cosa rappresenta per te la fotografia e cosa vuoi trasmettere con i tuoi lavori?
La fotografia rappresenta per me un mezzo di espressione potentissimo. Sappiamo bene che il nostro inconscio agisce principalmente per immagini, memorizzando in maniera nitida forme e colori anche a distanza di tempo. Queste immagini sono i tasselli preziosissimi che compongono il nostro immaginario, alimentano la nostra fantasia e condizionano le nostre scelte. Per questo motivo la comunicazioni visiva è cosi potente.
Nelle specifico creare delle immagini fotografiche ci da la possibilità non solo di immortalare il tempo, rendendolo eterno, ma anche di dare forma in maniera libera alla proprie visioni interiori che, una volta condivise, hanno il potere di meravigliare, condizionare e stravolgere le persone. Ciò che ha sempre catturato l’attenzione del mio sguardo sono le storie della gente e dei luoghi. Spesso le storie segrete, quelle dolorose, quelle che non si raccontano. Mi è sempre piaciuto, attraverso l’arte e il teatro, ridare luce a tutte quelle storie che per qualche motivo sono rimaste nell’ombra. Ho iniziato dalla mia personale esperienza, realizzando opere che raccontavano le mie paure e le mie sensazioni in alcuni momenti difficili della mia vita, e ho capito fin da subito quanto potesse essere catartico e terapeutico dare forma a ciò che quotidianamente si preferisce evitare.
Poi, in maniera del tutto naturale, c’è stato uno cambio. Ho iniziato sempre più spesso a occuparmi delle storie degli altri, trattando sia riflessioni legate alle masse e alla collettività, sia storie estremamente intime e personali, spesso traumatiche, di persone a me vicine o sconosciute. Diciamo che mi piace raccogliere i cocci delle cose brutte e trasformale, o almeno ci provo, in cose belle! Queste storie, che nascono da interviste, lunghi periodi di osservazione e ascolto, diventano fotografie, monologhi e spettacoli. Ho capito che quando accendi i riflettori sulle ombre, queste sono più nitide e fanno meno paura. Quando qualcuno ti accompagna in questo processo, ci si sente meno soli. E’ incredibile quanto un’immagine possa cambiare il corso degli eventi. Per me la fotografia è questo, è rivoluzione condivisa e immortalata in eterno.
Secondo te quando una storia vera viene raccontata attraverso delle immagini fotografiche, il punto di vista del fotografo influenza successivamente chi guarda il lavoro?
Assolutamente si! Nelle narrazioni fotografiche del reale, l’artista è il filtro tra la vera storia e l’opera. I modi di raccontare una vicenda accaduta realmente sono infiniti, cosi come sono infinite le visioni artistiche e le sfumature. Per questo motivo il punto di vista di un’artista influenzerà di sicuro lo spettatore, avrà la capacità di attirare la sua attenzione, di emozionare, di suscitare o meno delle sensazione e dei ricordi. A mio parere è in questi processi che risiede il talento. E’ da questo tipo di scelte che si definisce la forza di un’opera.
All’interno della tua ricerca artistica troviamo una predilezione per il bianco e nero. Ha un significato particolare per te?
Mi piacciono molto i toni scuri, i contrasti netti e le geometrie. Sono una persona abbastanza disordinata nella vita, mentre nell’arte necessito di un rigore minuzioso. Il bianco e nero suscita in me una sorta di ordine e di calma, e questo mi aiuta a delineare meglio le immagini.
Parallelamente alla ricerca fotografica, ti occupi anche di regia teatrale. Pensi ci sia una connessione tra i due mondi?
Decisamente sì. Quando nella mia vita ho incontrato la fotografia durante gli anni accademici, mi sono fin da subito innamorata di questo mezzo artistico. Quando ho iniziato a occuparmi di teatro, ho capito che il lavoro per immagini era essenziale sulla scena, sia nel processo di visualizzazione per gli attori, sia dal punto di vista della componente registica e drammaturgica. Nella composizione degli spettacoli parto sempre dalle suggestioni di alcune immagini, e mi rendo conto che mentalmente organizzo il palco e dispongo gli attori e le scenografie utilizzando lo stesso rigore geometrico che uso nella fotografia. Inoltre c’è tutto un discorso di composizione della luce che lega in maniera indissolubile fotografia e teatro. Sono due mondi estremamente interconnessi.
C’è qualche artista che stimi particolarmente e perché?
Sono tantissimi gli artisti che amo e che stimo. In maniera particolare tre colossi della fotografia mondiale hanno sicuramente segnato il mio percorso. Uno è certamente Joel Peter Witkin per lo stile provocatorio e dissacrante che lo contraddistingue nell’immortalare in maniera magistrale i lati oscuri dell’essere umano. Witkin spinge lo spettatore a confrontarsi con ciò che solitamente si tende ad evitare. E quando da studentessa entrai in contatto con il suo lavoro, ne rimasi rapita. L’altro è senza ombra di dubbio Salgado, perché in una sola vita è riuscito a immortalare come nessun altro aveva fatto mai, una mole immensa di vicende umane, girando in lungo e in largo in tutti e cinque i continenti, mettendo a repentaglio più volte la sua vita pur di portare a casa la sua preziosissima testimonianza. Per il grande bagaglio artistico ed emotivo che ci ha lasciato lo stimo molto. Non posso poi non citare Letizia Battaglia, per la sfrontatezza del suo sguardo e il suo coraggio immenso.