Open dialogues: intervista con Silvia Levenson

a cura di Margaret Sgarra, curatrice di arte contemporanea

Attraverso complesse ed emblematiche opere d’arte a carattere installativo, l’artista Silvia Levenson indaga la complessità della società attuale, riflettendo sulle criticità e le problematiche presenti, con particolare riferimento alla condizione femminile all’interno sia della famiglia, sia della società. Le sue opere, realizzate con il vetro, si presentano tanto crude quanto immediate, mettendo in evidenza senza mezze misure le discriminazioni di genere, l’importanza della solidarietà e la lotta contro le violenze.

 

Bambina spinosa, filo spinato, plastica, gesso, vetro, 2001

Quando hai capito che volevi fare l’artista?

Da sempre. Da piccola con mia sorella Bibi inventavamo delle storie, disegnavamo e facevamo di tutto per scappare dalla vita che ci proponevano gli adulti. Non ho un’educazione artistica formale. Ho studiato grafica in Argentina. Nel 1980 con la mia famiglia siamo venuti in Italia per scappare dalla dittatura militare. Avevo 23 anni e due figli: Natalia di 4 anni ed Emiliano di 11 mesi.

Al centro del tuo lavoro, ci sono gli oggetti di uso comune, che vengono associati a tematiche ben più complesse, quali l’amore, l’identità e la condizione umana. Come scegli le componenti delle tue opere e come nascono i tuoi progetti?

Still life, vetro fuso e acciaio, 2005

Sono influenzata da ciò che leggo, dai film che guardo e dalla consapevolezza che tutti noi abbiamo una vita quotidiana e ci rapportiamo con degli oggetti che ci risultano familiari. Nelle prime opere, ho usato come simbolo il coltello di vetro per l’ambiguità che rappresenta. Da un lato è un oggetto molto utile che usiamo in cucina, ma che può anche trasformarsi in un’arma mortale. In questo modo mi concentravo non solo sulla violenza, bensì sui meccanismi di questa violenza e sulle tensioni quotidiane.

Relax yourself, vetro e filo di rame, 2005

Una pioggia di coltelli sulla città o su una poltrona allude a un pericolo che non vediamo, ma che è lì sulle nostre teste. Il coltello di vetro è stato il primo oggetto di uso comune che ho utilizzato nelle mie opere.

Nella tua ricerca ci sono inoltre degli elementi ricorrenti e contrastanti, quali le bombe e le torte, i vestiti e il filo spinato. Come nascono queste associazioni?

Tea time is back, vetro fuso, 2018

Attraverso le mie opere indago sulle contraddizioni della nostra società patriarcale che ci propone l’ideale dell’amore romantico, basato sul controllo del corpo e della psiche di donne e bambine. Per questo le mie torte di matrimonio sono decorate con delle bombe rose inesplose. Mentre i vestiti da bambina di filo spinato ci ricordano i limiti e il senso di proprietà che spesso viene associato ai loro corpi.

In una società caratterizzata dalla saturazione di immagini, la parola scritta sembra perdere la sua importanza. Le tue opere mescolano frasi e immagini forti. Qual è l’importanza che attribuisci alla parola e all’immagine?

Borse “Love“, 2019

Per me le parole sono importanti: possono guarire oppure provocare guerre. Nelle mie sculture creo una specie di cortocircuito fra immagini e parole. Come il ricreare delle confezioni di cosmetici e di giocattoli per bambini su cui viene provocatoriamente scritto “miracoli”, oppure “di questo non si parla”. Attraverso il mio lavoro cerco di far emergere ciò che spesso viene considerato “indicibile”, quello viene nascosto fra le pieghe della vita quotidiana.

Il Luogo più pericoloso” è un progetto performativo e fotografico realizzato insieme a Natalia Saurin. Questo lavoro riflette su come gli atti di violenza di genere, in particolare quelli sulle donne, siano talvolta intrisi di insensate giustificazioni, che derivano da una cultura troppo radicata e distorta. Si tratta di un’installazione composta da comuni piatti da cucina, decorati con frasi spesso pronunciate dai colpevoli, o divulgate dai media per minimizzare la portata di questi episodi. Puoi raccontarci come è nato questo progetto e cosa rappresenta per te?

Il luogo più pericoloso, dettaglio installazione

Era da tempo che volevamo lavorare assieme a mia figlia Natalia Saurin, anche lei artista. L’opera Il luogo più pericoloso consiste in piatti da cucina di uso quotidiano, in ceramica, decorati con frasi estrapolate dai media per minimizzare episodi di cronaca legati alla violenza o usate dal violento per motivare il suo gesto. Questi oggetti testimoniano una guerra troppo spesso consumata all’interno delle mura domestiche. L’installazione Il luogo più pericoloso perciò parla di una guerra che si consuma nelle nostre case.

Il luogo più pericoloso, Atto I, Milano

Le frasi scelte parlano di desiderio, di controllo e di rapporto di potere. Sono parole dette da uomini incapaci di gestire il rifiuto o il fallimento di una relazione sentimentale (“mia o di nessuno; “ti picchio ma ti amo”; “è stato un raptus”; sono solo alcuni esempi). Frasi che distorcono la realtà della violenza contro le donne. Il femminicidio, infatti, non è la conseguenza di un improvviso e momentaneo impulso violento, ma l’esito di un continuum di violenze che durano nel tempo. A uccidere non è la gelosia, quanto invece l’atto violento di un oppressore che vuole controllare la partner. L’installazione è stata presentata per la prima volta nel 2019 a Firenze, a cura del Museo del 900, in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.

Il luogo più pericoloso, Atto II, Milano

Il 25 Novembre del 2020 i piatti al centro di questa performance avrebbero dovuto essere esposti nel cortile di Palazzo Reale a Milano nel Palinsesto I Talenti delle Donne, ma a causa della pandemia la mostra è diventata un’azione in Piazza Duomo. Qui, insieme ad altre donne, siamo state ritratte con i piatti dal fotografo Marco Del Comune. Nel 2021 poi c’è stata un’ulteriore evoluzione del lavoro. E’ stato realizzato un video che documenta l’azione di rompere dei piatti con sopra scritte le parole usate dai media che banalizzano e minimizzano la violenza sulle donne. Quest’opera audiovisiva è stata proiettata in varie città italiane: Milano, Torino, Verona, Biella, Genova, Roma, Salerno, Savona, Finale Ligure, Potenza, Buenos Aires in Argentina e Maryland negli Stati Uniti.

Esiste secondo te un’arte femminista capace di indurre in chi la osserva riflessioni tematiche e discriminazioni di genere?

Il luogo più pericoloso, Atto III

Credo che l’arte femminista, o comunque l’arte consapevole della discriminazione di genere, può certamente indurre come dici tu a riflettere o a modificare lo sguardo del pubblico.

Come artista e come donna cosa vuoi trasmettere attraverso le tue pratiche artistiche? E pensi che il linguaggio dell’arte possa contribuire a rendere il mondo di domani migliore?

7 kg di amore, vetro fuso, 2015

Chandra Livia Candiani in una sua poesia ha scritto “mi fa male la realtà”. Anche a me fa male, e l’unico modo che ho trovato per vivere in questo mondo è vivere attraverso l’arte. Esploro e osservo ciò che accade attorno a me per trasformarlo in sculture e installazioni. Non so se l’arte potrà cambiare il mondo, ma sicuramente ci migliora, ci emoziona e talvolta ci fa riflettere.

Quali sono i tuoi prossimi progetti e a cosa stai lavorando adesso?

Quest’anno sono stata invitata a insegnare in diversi workshop in Italia e all’estero. Insegnare, condividere delle esperienze fa parte della mia pratica artistica. Così andrò negli Stati Uniti, Costa Rica, Honduras, Germania, Spagna e Portogallo per partecipare a conferenze e tenere dei corsi. Avrò poco tempo, ma sto lavorando per la mia prossima personale dell’anno prossimo che sarà una riflessione sul cambiamento climatico.