Dellaclà/L’arte dell’autorappresentazione

L’eclettica artista italiana Dellaclà ci parla del suo modo di esplorare l’instabilità umana attraverso l’immobilità degli oggetti.

Punto di partenza dei tuoi progetti sono spesso resti di animali (come ossa, corna, teschi, ecc.) che vengono manipolati e incisi attraverso l’uso di diverse tecniche. Quale significato assume questo processo creativo?

La precarietà dell’esistenza, la metamorfosi, il cambiamento. La forma e il contenuto abitudinale dei resti animali assumono diversi significati arcaici, basandosi anche sull’esperienza di chi li osserva.

L’autoritratto è un’altra costante dei tuoi lavori. Lo troviamo, infatti, riprodotto su un pugnale, uno specchio, oppure su lamette e teschi. Che cosa esprime questo continuo atto di rappresentazione?

La scelta di rappresentare me stessa è solo un modo per descrivere qualcosa che conosco bene. È un esempio attraverso il quale ognuno può vedere se stesso. È “metterci la faccia”. Credo che “usare” un altro soggetto sia un po’ come nascondere se stessi, le proprie idee, i pensieri, le emozioni e dare ad altri un’immagine che non appartiene a loro.

Due tuoi progetti sono dedicati al “concetto” dell’amore, rappresentato però in maniera antitetica. In Amori Impossibili questo sentimento è tragicomico, irrazionale, basato su convivenze irrealizzabili in natura. In Love Kills invece diventa passionale e distruttivo, raffigurato simbolicamente con armi mortali. Ce ne parli?

La parola “amore” racchiude tantissime emozioni contrastanti e passionali. Per amore, o in nome dell’amore, si diventa folli, tragici, ridicoli, malinconici, euforici, comici. Basta poco per perdere l’equilibrio e passare dalla gioia al dolore. Questi due sentimenti rappresentano entrambi i progetti, le metafore dell’amore, ma anche le trappole dell’amore. E, nonostante possano essere scelte consapevoli oppure no, restano pur sempre esperienze fatte per amore o per l’idea che ognuno ha dell’amore.

 

Equilibrio

Nella tua mostra personale del 2008 Chiodi delle mie pene il tema del dolore viene sviluppato attraverso l’utilizzo di una serie di differenti mezzi espressivi che materializzano simbolicamente un percorso di accettazione e superamento. Puoi raccontarci questa esperienza?

La parola chiave è consapevolezza. Ho cercato di mostrare una condizione universale dell’umanità. Mi riferisco in particolare ad accadimenti accidentali di una “ferita” simbolica, o al rischio a cui la vita e la volontà dell’uomo sono sottoposte continuamente. Ci troviamo così costretti a prendere coscienza e consapevolezza di una situazione che a volte è spiacevole, ma anche reale. L’installazione, da cui ha preso il titolo la mostra, era costituta da una pedana con 500 Kg di chiodi che occupava l’ingresso dell’esposizione. Al centro vi era un cuscino di lamiera dove affondava un chiodo inciso di zinco che rappresentava frammenti di ricorsi e di esperienze. I visitatori, per vedere il resto della mostra, erano obbligati a camminare sulla pedana ricoperta di chiodi. Inizialmente erano un po’ timorosi, ma subito dopo aver compiuto il primo passo avvertivano una inaspettata morbidezza sotto ai loro piedi, dovuta alla gommapiuma posizionata nella parte sottostante i chiodi. Quindi ciò che poteva provocare dolore e durezza, suscitava sorprendentemente piacere e morbidezza.

Che cosa ti stimola creativamente? E c’è un artista che ti ha influenzato o che rappresenta un punto di riferimento?

Mi stimola tutto ciò che è creatività: dalle storie delle persone alla musica, da un libro fino a un video. Del resto penso che in qualche modo tutti gli artisti ci influenzino, da quello che ami a quello che invece non sopporti. In realtà sono soprattutto questi ultimi che determinano nel nostro lavoro aspetti che non penseremo mai di rivedere o ritrovare.

 

 

 

 

Biografia: Dellaclà è nata a Viareggio nel 1983, vive e lavora tra Massa-Carrara, Manarola e Marrakech. Ha conseguito la laurea in Pittura ed il Biennio Specialistico in Arti Visive e Dicipline dello Spettacolo sezione Pittura, all’Accademia di Belle Arti di Carrara. Nel suo lavoro usa un vocabolario di oggetti-segno, focalizzando l’attenzione sull’autorappresentazione per dissimulare il peso della violenza attraverso la leggerezza dell’autoironia.

 

 

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